Ultimi confini

Giorgia Aimeri

Duemila, tremila, tremila e cinque. Quinta. Duemila e cinque, tremila, tremila e cinque. Il motore emette un rombo sordo ovattato dai vetri dai quali filtra accecante la luce del sole che cola sul parabrezza. Oltre il guardrail il mare è olio scuro, le case piccole piccionaie colorate. I cartelli stradali si inseguono. Una curva. Un’altra. Il sole è risucchiato dalla galleria. Buio. Le luci fredde dei neon illuminano le pareti scrostate. Un’altra curva, il piede cerca il freno. Per un secondo distingue perfettamente ogni cifra e lettera sulla targa della macchina davanti, è leggermente sporca di terra sul lato destro. Quattromila e cinque, quattromila, tremila. Le lamiere si fondono nella geometria che stabilisce la vita e la morte.

 

Fa caldo qua dentro. Non capisco esattamente dove sono, è tutto buio. Mi agito in un liquido eppure respiro. Muovo un piede, almeno io credo che sia un piede, sì è mio, lo sento che si muove… si muove! Urto qualcosa, spingo più forte. Ora allungo una mano, ancora quella parete. Sono in una bolla. Un rumore basso e continuo che a volte accelera e a volte rallenta. La mano percorre la parete, ho poco margine di movimento, sono legata da una corda. Sento delle voci, ma è troppo buio non distinguo nessuno, forse qualcuno sta venendo a prendermi. Mi agito cercando di farmi vedere. Il rumore basso e continuo accelera. Sento un grido da fuori, sono spaventata, mi ritrovo a urlare senza averlo deciso. Il livello del liquido sta scendendo. Vedo uno spiraglio di luce. Le urla provengono da là, mi schiaccio contro il fondo, ma ora la bolla si contrae, mi spinge verso le urla, ho paura, la luce diventa sempre più intensa e io le sono sempre più vicina, sto morendo, sì sto morendo. Qualcosa mi afferra, è una mano; per un secondo mi manca il respiro. La mano mi strappa via dalla bolla, sono ancora legata al mio mondo, posso ancora tornare indietro. Una seconda mano mi batte sulla schiena, tossisco.

«Non c’è più acqua qui» urlo io disperata. Hanno tagliato la corda che mi legava alla bolla, ma non mi sento libera. Le urla sono cessate. C’è tanta luce e non vedo nulla, ho solo freddo. Due mani mi portano vicino a un corpo caldo, riconosco quel rumore basso e ancora leggermente accelerato. Quel corpo è caldo, asciutto. Altre due mani mi avvicinano a un… un… non capisco cosa sia, non riesco a mettere a fuoco. Ora vedo è un viso. Due occhi immensi mi guardano, mi riconosco nel fondo di quell’oceano scuro e lì mi immergo, quegli occhi sono la mia bolla calda e sicura. Non urlo più.

Si va verso la luce quando si nasce. Si va verso la luce quando si muore, chissà che non siano lo stesso posto.

 

La schiena nuda poggiata sul metallo freddo. Luci bianche, ancora neon. Odore di disinfettante. Medici e infermiere si affrettano attorno al corpo dell’uomo. Mascherine verdi. La macchina? Guscio vuoto di un viaggio non concluso. Disintegrato, solo luce. Le voci arrivano confuse, vorrebbe muovere un braccio, ma non risponde, non è più suo.

 

Mia mamma piange, non capisco. Il suo petto si alza e si abbassa a una velocità irregolare, un singhiozzo più forte degli altri mi spaventa, piango anche io adesso. Mi coricano in una culla bianca, di fianco a me c’è un’altra culla, ma è grandissima rispetto alla mia. Dentro c’è un uomo. La mamma gli mette a posto il lenzuolo, continua a piangere. Mamma, sta dormendo, perché piangi? Sarà per colpa di quei tubi che escono da ogni parte di quell’uomo, io ne avevo solo uno che mi usciva dalla pancia, ma non era così male. La mamma si è addormentata sulla sedia nera, la testa tra le gambe. Poi quell’uomo ha aperto gli occhi, così all’improvviso, l’avevo detto che dormiva! Mi ha sorriso e ha detto qualcosa. Mamma si è svegliata e ha pianto di nuovo. Non ha molto senso questa vita.

 

Ricordo la sera che ci hanno portati a casa dall’ospedale. Avevo ancora il braccialettino rosa al polso. Ero un fagotto bianco, nessuna cicogna, era dicembre e quelle erano già tutte emigrate a sud, solo le braccia di papà a tenermi e in fondo erano molto meglio di un becco. Siamo usciti, noi tre insieme e ho sentito freddo per la seconda volta, ho guardato in su e ho visto un’altra luce, mi sono stretta a papà seduto in carrozzella, non volevo essere risucchiata di nuovo! Questa volta volevo rimanere sul serio. Papà mi avvicina di più al petto, quel rumore basso e costante, chiudo gli occhi. Mi addormento ed è di nuovo tutto buio.

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